Dal Vietnam al Veneto, torna lo «yankee go home»
by liquida on Feb.07, 2007, under Articoli
La migliore era dipinta su un cartello davanti alla base americana di Camp Darby, tra Pisa e Livorno, qualche tempo fa: «Yankee go home!, restino solo quelli bonazzi e disarmati ».
In attesa di vedere se a Vicenza saranno altrettanto fantasiosi, bisogna constatare una cosa: uno slogan efficace non muore mai.
Lo sanno da sempre i pubblicitari, lo sospettavano i politici, lo stiamo scoprendo tutti noi. Yankee go home!, da quarant’anni almeno, viene gridato per rabbia, per ingratitudine, per esasperazione, per moda, per insofferenza o per ignoranza.
Chi ha iniziato? Non aiuta Google e non servono i dizionari. Probabilmente un anonimo dimostrante —a Caracas o a Parigi, a Londra o a Berlino—che aveva in antipatia Johnson o Nixon, e voleva che gli americani sloggiassero dal Vietnam. Ma in Giappone non sono d’accordo: dicono che hanno cominciato loro, nel 1952, per protestare contro l’occupazione di Okinawa. Yankee go home!— e la pronuncia sarà stata certamente interessante.
Il termine Yankee è, con ogni probabilità, americano autoctono: una corruzione del vocabolo inglese "English" o del nome olandese "Janke" (diminutivo di Jan), entrambi difficili da pronunciare per gli indigeni. Da allora Yankee ha subito molte avventure, passando anche attraverso una Guerra Civile; e il mondo — inevitabilmente — ha le idee confuse. Ha scritto il saggista E. B. White (1899-1985), una delle migliori penne d’America:
Per gli stranieri, uno yankee è un americano.
Per gli americani, uno yankee è uno del nord.
Per quelli dell’est, uno yankee è uno del New England.
Per quelli del New England, uno yankee è uno del Vermont.
In Vermont, uno yankee è uno che mangia stufato a colazione.
Per gli americani, uno yankee è uno del nord.
Per quelli dell’est, uno yankee è uno del New England.
Per quelli del New England, uno yankee è uno del Vermont.
In Vermont, uno yankee è uno che mangia stufato a colazione.
Voi direte: che importa? Gli studenti italiani degli anni ’60 e ’70 non erano né storici né linguisti: erano arrabbiati (magari per i motivi sbagliati), e lo slogan funzionava bene. Non erano soli: negli stessi anni, a Pechino, Guardie Rosse obbedienti strillavano le stesse tre parole (nel 2001 la casa d’aste Sotheby’s ha venduto un poster della Rivoluzione Culturale con la scritta «Yankee Go Home». Prezzo, 575 dollari). Da allora si va avanti così. Appena gli americani si fanno vedere nel mondo in armi, gli avversari raramente compiono uno sforzo di fantasia: Yankee go home, e così sia.
La frase, nella storia d’Italia, ricorre come un mantra indiano, e ha più funzioni di un coltellino svizzero. Hanno iniziato — con ogni probabilità—gli studenti degli anni ’70, per protestare contro la guerra in Vietnam. Hanno continuato, nei primi anni ’80, i pacifisti contrari alla dislocazione dei missili Cruise in Europa (e indifferenti agli SS20 sovietici). Hanno proseguito i craxiani ai tempi di Sigonella (1985), credendo d’interpretare i desideri del capo. Hanno fatto lo stesso anche i pacifisti per contestare il governo D’Alema, ai tempi dell’intervento in Kosovo (1999), e a Napoleone Colajanni la cosa non era piaciuta («Yankee go home: uno slogan da dimenticare»).
Si potrebbe andare avanti (non ci sono solo grida e cartelli: ci sono convegni, canzoni e l’inevitabile intervista a Noam Chomsky), ma il concetto è chiaro. Qualcuno, in Italia, vuole che gli americani (Yankees) tornino a casa (home). Dimenticando una cosa: stavolta ne sono usciti, purtroppo, per impantanarsi in quel covo di matti che è l’Iraq; ma spesso — per il solo fatto di esserci — ci hanno tirato fuori dai guai. Go home comunque, o vogliamo fare distinzioni?
Testo di Beppe Severgnini